venerdì 24 settembre 2010

“Sangue di cane” (Laurana) di Veronica Tomassini

“Cosa ci rende infelici? Se lo chiederanno mai i randagi? No, loro seguono la via, immersi in una notte cieca, coperti solo da un dolore erico” (L’aquilone, Veronica Tomassini)

Veronica Tomassini, giornalista, siciliana, ma di origine umbra, ha pubblicato “L’aquilone” (Emanuele Romeo, 2002); “Outsider” (A&B editrice, 2006); “La città racconta. Storie di ordinaria sopravvivenza” (Emanuele Romeo Editore, 2008). Da pochi giorni è in libreria “Sangue di cane” della neonata casa editrice Laurana, nata da un’idea di Calogero Garlisi, l’amministratore delegato di Melampo.

Sei “circocentrica” nelle idee, e slavofila (senza scuse, dici tu). Dicci che significa e parlaci di te.

Circocentrica non vuol dire nulla per la verità, è una descrizione ironica, giocosa, che ho usato sul profilo di facebook (di quella diavoleria di facebook). Di me non posso dire molto: scrivo per mestiere e perché l’ho sempre fatto. Sono una slavofila perché i miei gusti musicali, le mie letture, certi registi che ho amato, arrivano da quel promontorio. Ho amato la letteratura russa, mi ha condizionato forse, continuo a riconoscere il valore assoluto del realismo di Gogol, dei suoi eroi capovolti, umiliati e offesi, del parodosso del dramma dei diseredati, su cui poggiava il suo sguardo lucido e una risata stridula, diceva Prampolini, mentre il lettore soffocava per l’amarezza e la malinconia.

In “Sangue di cane” c’è la Sicilia e c’è la borghesia. Che Sicilia è ? E che borghesia è?

C’è una Sicilia poco frequentata, la più meticcia, la più distratta. Questa Sicilia ha perso i suoi connotati e alla trama non concede cliché. Non esiste la borghesia, è una classe scomparsa da un pezzo, in Sicilia più che mai. Niente a che vedere con atmosfere e interni da trazzere e pale di fichi d’india, tipici di una certa tradizione letteraria meridionalista. Nel romanzo non c’è una denuncia valida, potente in questo senso, uso forse impropriamente l’aggettivo borghese (che mi fa pensare al neorealismo, sarebbe più opportuno collocarlo lì, in seno ad un romanzo di Moravia, nei modi e nei toni dell’eterna Andreina de Le ambizioni Sbagliate); invece che borghese avrei potuto intendere “il mondo giusto”, perbene, educato. La Sicilia offre un pretesto formale, globalizzata e anonima.

È anche la storia di un amore impossibile, ma vero. Che si intreccia con il tema dell’immigrazione e dell’integrazione. Dove “l’altro” è la giovane ragazza italiana che viaggia da una vita a un’altra.

Una giovane donna di buona famiglia che si innamora di un uomo polacco, senza fissa dimora. E sarà l’abisso.

Perdere ogni cosa, immergersi dimenticando quello che si è, per poi rinascere, forse. C’è speranza in questo tuo romanzo?

L’amore è speranza, pure pretendendo il suo vincolo di vassallaggio. Una condizione nobile ed elevata che deve espiare, dopo aver guarito, salvato, edificato.

C’è l’idea di una Volontà superiore negli eventi del tuo romanzo. Che rapporto hai con la fede, con le religioni?

Se non Dio chi era Colui che reggeva la fronte al becero, che sollevava le braccia inutili di un barbone senza stomaco, sepolto dai suoi escrementi, che raccoglieva nella sua preziosa otre il sangue dell’empio, bruciato dall’abiezione? Chi era Colui che asciugava le lacrime dell’accattone malato di alcol e di solitudine in una stanza di ospedale? Io lo chiamo Padre.

“Credo che la scrittura debba fare male, scoprire i nervi e provocare cortocircuiti. Gli scrittori sono troppo indulgenti con il mondo intorno, cercano la fama e il profitto, una fetta di torta qualsiasi. A me interessa illuminare zone di buio, con le mie storie, i miei personaggi, il mio stile. Dentro quel buio ci sono anch’io, ci siamo tutti noi.” Luigi Bernardi. “Voglio una letteratura perturbante e non consolatoria” Wu Ming 1. Che ne pensi? Cosa vuol dire “far male”, “perturbare”? E’ quello che vuoi?

Non lo so, magari è così, molto scaturisce da un dolore esistenziale o da una noia esistenziale, ma non posso dire se questo sia il punto; a volte sento la scrittura vicina ad una grande nostalgia. La scrittura arriva da un luogo misterioso, dove ogni voce si è già incontrata.

Cosa senti di questo “luogo misterioso”? Come ti arrivano le storie, le parole, i colori, le persone e gli odori che poi riesci a mettere nelle tue righe?

Ripeto, non è traducibile. Le cose sono lì, bisogna lasciare che affiorino, come i narcisi sul pelo dell’acqua.

Come sei arrivata a pubblicare questo tuo quarto libro? Quale è la tua storia di scrittore?

Sono arrivata a questo libro grazie al lavoro generoso di talent scout dello scrittore Giulio Mozzi. Aveva letto le mie cose precedenti, venne a Catania apposta. Mi disse: “adesso devi scrivere la storia che si nasconde dietro tutte le altre; adesso è arrivato il momento”. Così è stato. Giulio Mozzi mi ha sostenuto fino ad oggi, fino a Laurana, continua a farlo, i suoi consigli sono preziosissimi. Inoltre devo dire grazie a Marco Travaglio che ha letto il romanzo, quando non aveva ancora un editore; gli sembrò molto forte e lo propose in lettura a Calogero Garlisi, già fondatore di Melampo (casa editrice specializzata in saggistica). E’ stato un bel gesto da parte sua. Garlisi invece mi sembra di conoscerlo da sempre, così positivo, così entusiasta. In un battito ha fondato una nuova casa editrice, la Laurana, investendo nel mio romanzo. Poi c’è Gabriele Dadati, editor e infallibile ufficio stampa di Laurana (giovane e bravo scrittore), e il grafico Daniele Ceccherini. E infine ci sono gli altri ottimi autori, già in catalogo: Massimo Cassani (“Un po’ più lontano”), Marco Bosonetto (“Nel grande Show della democrazia”), Antonio Pagliaro (“I cani di via Lincoln”). Sono stata fortunata, ho incontrato le persone giuste, giuste e generose.

Cosa stai leggendo? C’è un libro che ti ha molto colpito recentemente?

Sto leggendo Cesare Pavese, “Prima che il gallo canti”. Nella ristampa del 1974, è un Oscar Mondadori.