martedì 18 maggio 2010

Maurizio De Giovanni, autore de "Il posto di ognuno" (Fandango)

Maurizio De Giovanni è nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Nel 2005, con un racconto ambientato nella Napoli fascista degli anni Trenta che ha per protagonista il commissario Ricciardi, vince il premio nazionale Tiro Rapido, riservato a giallisti emergenti. Lo stesso personaggio diviene poi il protagonista di un romanzo edito da Graus nel 2006, "Le lacrime del pagliaccio". Lo stesso romanzo viene successivamente edito dalla Fandango Libri di Domenico Procacci, col titolo "Il senso del dolore". Sono usciti poi "La condanna del sangue" e "Il posto di ognuno".

Benvenuto su questo blog Maurizio. Hai creato un personaggio, il commissario Ricciardi, che i lettori amano sempre di più. Lui indaga sui sentimenti, sulle emozioni, sulle sensazioni. È così? Da dove nasce, come ha preso vita questo personaggio?

Ricciardi nasce per puro caso al caffè Gambrinus, in occasione della mia partecipazione ad un concorso indetto dalla Porsche nel giugno del 2005, al quale fui iscritto da un gruppo di amici che, bontà loro, avevano previsto per me un futuro in ambito letterario. L’ambientazione liberty del locale, il caldo opprimente, una bambina che passava fuori in strada e che, sentendosi osservata, mi fece una smorfia: tutti piccoli elementi che fecero scattare dentro di me qualcosa. Non c’è niente di autobiografico: Ricciardi non mi somiglia, né fisicamente, a parte forse il colore degli occhi, né psicologicamente, essendo io estroverso e tutt’altro che taciturno. Fu piuttosto una scintilla di fantasia: forse condivido profondamente la sua percezione del dolore, la sua condanna a non poter voltare le spalle alla sofferenza, la sua partecipazione affettiva soprattutto nei confronti dell’infanzia e grazie a questa condivisione le alimento in maniera convincente, stando almeno a quello che mi dicono le persone che hanno la bontà di leggermi.


Ricciardi opera in un’epoca buia. Solo e disperato, è stato definito più volte. E le sue storie le apprezzano i lettori d’oggi, epoca certamente non luminosa. Perché “solo e disperato”? Perché viene apprezzato? C’è speranza in Ricciardi, se è vero che “dolore e ingiustizia sovrastano gli uomini”?

Ricciardi è irrimediabilmente solo, e perciò disperato, perché non ha scelta. La sua caratteristica fisica, insita nella sua stessa personalità, è infatti quella non poter evitare di essere testimone dell’ultima emozione, dell’ultima passione di chi lascia la vita per una morte violenta. Noi possiamo cambiare strada o canale, abbiamo telecomandi, giornali di gossip, possiamo fingere che il dolore non esista e possiamo evitarne le mille forme che troviamo sulla nostra strada. Ecco, Ricciardi è semplicemente un uomo normale ma privo di un telecomando; rappresenta quello che succederebbe a chiunque di noi non potesse evitare il dolore. Ed è proprio questo a renderlo solo in un’epoca e un regime in cui tutto deve sembrare perfetto senza esserlo. Epoca buia e sostanzialmente affine a quella in cui oggi viviamo, tutt’altro che luminosa.
Ma Ricciardi ha una possibilità: la finestra. In altre parole, la possibilità, peraltro da lui stesso negata, di condividere. Ecco perchè, a mio modo di vedere, il pubblico lo apprezza: se dolore e ingiustizia sovrastano gli uomini, la via di uscita può essere il rapporto con gli altri. E a mio avviso, ora come allora, la via non può essere che questa.

Ogni investigatore che si rispetti ha un secondo, un collaboratore fidato. Holmes aveva Watson, Adamsberg ha Langlard, Montalbano ha Fazio. Parlaci di lui.

Ti dicevo che Ricciardi non mi somiglia affatto. Viceversa, se dovessi scegliere il personaggio al quale mi sento più simile, direi Maione, il brigadiere che gli fa da spalla e che lo protegge a distanza.
Che è un uomo grande e grosso ed eternamente in lotta con la bilancia, come lo sono io. Ma soprattutto è un uomo semplice, che guarda i fatti senza preconcetti, con concretezza e disincanto e proprio per questo ne arriva all’essenza. Spesso non capisce i percorsi della mente e dell’anima di Ricciardi, ed è costantemente preoccupato per lui; ma non si chiede perché e lo segue, sempre e comunque. La fedeltà nell’affetto è per le persone veramente grandi, e io sono molto soddisfatto di questo personaggio.

Come prende vita un tuo romanzo? Come scrivi e perché scrivi?

Come oramai molti sanno, sono assai veloce nella redazione dei miei romanzi. In realtà, la trama nasce, tassello dopo tassello, nella mia mente, senza che io senta la necessità di mettere nulla per iscritto. Poi, all’improvviso, i personaggi si affastellano e comincio a visualizzare intere scene. A questo punto, devo scrivere. E scrivo, accorgendomi che molte delle vicende prendono una strada completamente diversa da quella che avevo immaginato. In buona sostanza, so chi è morto, dove e come, chi lo ha ucciso e chi può sembrare che lo abbia ucciso. Ma una volta che metto in scena i personaggi e li caratterizzo, è come se mi fossi limitato a dargli la corda: la direzione che prenderanno, e ti giuro che non è un vezzo, è assolutamente indipendente dalla mia volontà. Addirittura, alcune volte il loro carattere non corrisponde affatto a quello che avevo inteso dargli: proprio come succede come un figlio.

Penso spesso che un libro che racconta una storia debba essere come l’aprire al lettore una porta su un luogo dove che sceglie di entrare possa trovare qualcosa di sé, e metterci qualcosa di sé. Non una stanza tutta arredata, ma un posto aperto, dove si possa camminare, scoprire, e scoprirsi.

Mi dicono che i miei romanzi hanno diversi piani di lettura, e di ciò mi compiaccio: se è vero che per me gli stessi personaggi sono e devono essere in divenire, a maggior ragione mi piacerebbe che ogni lettore che si accosti al mondo di Ricciardi ne possa cogliere gli aspetti più vicini al suo particolare modo di essere e di vedere la vita.


“Il bene nasce dalle donne e a esse troppo spesso arriva il male.” L’hai detto tu. Parlaci dei tuoi personaggi femminili.

Il centro delle mie storie storia sono i sentimenti e le passioni, il cui territorio, all’epoca di Ricciardi come in ogni altra epoca, sono le donne. L’universo femminile, incomprensibile e ignoto al commissario, è il percorso necessario per comprendere l’emozione la cui genesi ha provocato il delitto. Il tema del primo romanzo è la prevaricazione e il possesso, una relazione che vede spesso vittime le donne; il secondo romanzo è basato sull’amore materno e filiale, rapporto tipicamente femminile; il terzo sulla gelosia, e mi sembra ovvio il legame di quest’emozione con le donne. In questo senso, il bene nasce dalle donne e a esse troppo spesso arriva il male.
Venendo ai miei personaggi femminili principali, Livia è una donna moderna, indipendente, abituata a ottenere senza sforzo quello che vuole, soprattutto in termini di uomini; ma è anche una persona che ha molto sofferto, che ha una scala di valori fortemente consolidata, che sa chiamare per nome un sentimento quando lo prova. Ha capito che il suo cuore vuole un sentimento nuovo, e vuole andare a fondo di un’emozione forte che prova ma che non riesce a incasellare. Enrica è una ragazza del suo tempo, dolce e romantica ma testarda e severa. Si è innamorata nell’unico modo che conosce, vuole una vita semplice e normale con l’uomo che ama, casa, famiglia, figli. Sente l’emozione di Ricciardi per lei, la riconosce e non capisce perché le cose non evolvano secondo le convenzioni che la sua società pratica da sempre. Però è determinata a fare tutto quello che le stesse convenzioni le impongono per conquistare la sua felicità. In realtà nel corso dei romanzi Enrica evolve verso Livia, acquisendo di lei la volontà e la voglia di superare gli ostacoli in nome della propria felicità e Livia evolve verso Enrica, sviluppando il desiderio del benessere e del rispetto verso la persona amata. Ma il mio personaggio femminile preferito è Rituccia, la cui storia ho dovuto comprimere nel mio secondo romanzo, “La condanna del sangue”, per motivazioni editoriali e alla quale mi sono sentito in dovere di dedicare un racconto che a detta di mia moglie è una delle cose migliori che abbia mai scritto (che ho avuto il piacere di leggere, ndr).

“Stiamo perdendo continuamente brandelli di memoria soffocati da esplosioni tecniche che ci spingono a perdere la nostra debolezza luminosa. Non dobbiamo essere schiavi delle comodità.” (Tonino Guerra). Che ne pensi?

Ho letto Tonino Guerra per la prima volta tanti anni fa e non l'ho mai dimenticato. Il suo "raccontare" era così profondo e nello stesso tempo così comprensibile e pervaso da un sottile umorismo, che ne ho fatto una sorta di icona. In questa frase c’è tutto: l’importanza del ricordo, i limiti del cosiddetto progresso, l’importanza dei sentimenti ancestrali. E’ unico, il suo richiamare l’attenzione sulla semplicità, diffondendo poesia e bellezza.

“Il nostro è l’unico tra i Paesi cosiddetti evoluti nel quale non esiste una rivista letteraria degna di questo nome, né un dibattito pubblico sui grandi temi culturali.” Come se ne può uscire?

Questo è un mio “pallino”: da quando ho raggiunto una certa notorietà, cerco sempre di portare il discorso sul tema, sperando di coinvolgere altri scrittori.
In realtà, in Italia regna l’individualismo più sfrenato, anche e soprattutto in ambito culturale. La sinistra, ritenendosi depositaria di ogni sapere, ha assunto una posizione snobistica, che separa inesorabilmente il sapere dalla nazione, mentre la destra si è rassegnata all’immagine incolta che la sinistra le attribuisce, e sembra perfettamente a suo agio in questo mondo di puffi, nani e ballerine. Ed è veramente un peccato, visto che a mio avviso la mancanza di sinergia rappresenta il più grande limite di questo Paese e della mia città in particolare, che evidenzia questa caratteristica deteriore in maniera esponenziale.
Spero nel mio piccolo di riuscire a fare qualcosa, cercando di coinvolgere quelli che la pensano come me, e considerato che in questo momento storico Napoli offre la più alta concentrazione di scrittori e artisti rispetto alle altre grandi città italiane, sono moderatamente ottimista.

Napoli. Le tue storie potrebbero svolgersi altrove, o solo lì?

Napoli è una città fatta a strati, come una cipolla. Nel tempo, nelle epoche, cambia solo la parte superficiale, quella che si vede dall’esterno; l’essenza, la realtà più profonda, rimane costante negli elementi fondamentali. La cosa dipende da una specialissima condizione topografica, unica per una grande città: il centro è compresso tra mare, montagna e colline, per cui la popolazione cresce in modo sedimentario. Non c’è divisione tra quartieri poveri e ricchi, il contatto è perenne e le difficoltà di questo contatto emergono costantemente. La città bolle come un brodo oscuro in una pentola, quello che è sul fondo risale e quello che è in superficie è destinato a ritornare sul fondo. In questo Napoli è uguale a se stessa, anni trenta come anni ottanta, dopoguerra come oggi. E le mie storie non potrebbero avere altro teatro, essendo il frutto di questo costante movimento.

Quale è il ruolo dello scrittore oggi?

Dello scrittore, non so. Per quello che mi riguarda, non credo di portare un messaggio: la mia è letteratura di evasione. Spero però di rappresentare un esempio per i giovani che si accingono ad intraprendere questo cammino: mai perdere la speranza, non piegarsi alle leggi del mercato, conservare una forte connotazione territoriale e non considerare gli altri come antagonisti, ma come occasione di crescita.

Monicelli diceva che era dura convincere sua moglie che quando stava alla finestra per ore e ora, stava lavorando. Tu come coltivi la tua fantasia?

Passo ore e ore alla finestra, o meglio per strada, visto che affaccio in un parco. Ma non ho bisogno di convincere mia moglie dal fatto che questa è l’unica ispirazione che conosco.

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